Ci vuole calma e sangue freddo…
Ci vuole coraggio per scrivere di architettura, ci vogliono equilibrio, sintesi e lucidità per non cadere nel tranello di diventare leziosi, autoreferenziali o trattatistici; scrivere di Architettura è un esercizio complesso, è un po’ come scrivere di Musica attiene a sensazioni e percezioni individuali e soggettive che non è semplice esplicitare ed oggettivizzare.
Questo insieme di saggi è proprio nelle corde di Vittorio, convinto come Isabel Allende che “La scrittura sia un tentativo disperato di preservare la memoria e che consente di non perdere pezzi lungo il cammino”.
Gli stessi testi sono comparsi in altri volumi e in riviste di settore, ma la loro rilettura in un modo sistematico e continuo mi hanno consentito di percepire la coerenza, la passione e la caparbietà nella volontà di comprendere l’Architettura che mi accomuna all’autore. Questa raccolta di scritti è anche questo: una forma di “prova del nove”, una verifica tagliente e spietata del pensiero architettonico che nel tempo è maturato. È evidente che se non vi sono una riflessione e una convinzione profonde sugli argomenti che si stanno trattando è impossibile scrivere fluidamente e criticamente di un tema architettonico ed in un qualche modo, questo è anche un esercizio di ariostesca volontà di mettere alla prova i propri convincimenti sulla disciplina.
Gli scritti contenuti in questo testo sono frammenti, tessere di un mosaico del tutto concluse, cristalline e comprensibili individualmente, ma che descrivono la complessità del fare architettura composto da storia, tecnologia, topografia, categorie compositive, elementi primari e dei mille altri ingredienti che trasformano l’atto fondante del costruire in Architettura con la “A” maiuscola.

Certosa di Pavia, dalla serie di incisioni commissionate nella seconda metà del XVIII secolo dal Marchese Pio Bellisomi, disegnate da Giovanni Ramis.

Gli aspetti che vengono toccati dall’autore sono molteplici e mettono in evidenza le relazioni sottese tra arti, storia, design e progetto architettonico e pongono l’accento sulla interdipendenza delle une con le altre discipline, ma uno degli aspetti che maggiormente mi ha indirizzato nel corso degli anni è il reiterato richiamo al viaggio e alla sperimentazione dal vivo dell’architettura come strumento privilegiato di controllo delle scelte e delle percezioni progettuali. Non vi è citazione più appropriata che quella di Sant’Agostino per una prefazione: “Il mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina”, e per questo l’introduzione non può che essere un’anticipazione del cammino che segue.
Ogni scritto, selezionato per questo testo, corrisponde ad un preciso episodio della mia formazione che sarebbe andato perso (nella mia labile memoria) se Vittorio non ne avesse fatto una sintesi scientifica così accurata e precisa.
Per me, questo volume che avete tra le mani, è contemporaneamente una coinvolgente madeleine proustiana da un lato e dall’altro, la metafora di un romanzo di formazione: la mia formazione.
Tutto ciò che l’autore descrive, illustra, analizza e approfondisce in questo libro, mi appartiene e mi riguarda: veniamo dalla stessa città, apparteniamo quasi alla stessa generazione, ci siamo mossi nello stesso contesto culturale; in tal senso abbiamo una mappa di riferimento simbolica del tutto comune.
Occorre svelare a questo punto un dettaglio autobiografico che è accennato nella prefazione “Onirica” dell’Autore: ero io uno dei giovani studenti che lo ha affiancato nell’allestimento della mostra pavese sul teatro di Olbia di Michelucci; è stato assistente in un paio di corsi in cui ero studente e ora, da alcuni anni, svolgiamo insieme un percorso di didattica al Politecnico di Milano, che è per noi contemporaneamente un’esperienza di insegnamento e apprendimento.
Sono grato a Vittorio per il tempo e per il viaggio che condividiamo.

Giovanni Michelucci, schizzo di studio per il Teatro di Olbia.

Premessa Onirica

di Vittorio Prina

Scorrendo i titoli dell’indice mi si affastellano nella mente ricordi di parecchi anni, a volte di alcuni decenni orsono.
I disegni di Michelucci stanno arrivando da una precedente sede espositiva, spediti via aerea. Nel frattempo si corre per ottenere i permessi per utilizzare il salone di disegno in università, e l’adiacente salone per la presentazione – siamo ancora nel centro storico –; non ci sono fondi sufficienti e dobbiamo riutilizzare gli elementi componibili di un precedente allestimento. Riesco a studiare una pianta mutuata dal PAC di Gardella; schema che mi è tornato utile in altre occasioni. Pieghevoli e locandine sono realizzati dallo studio grafico di un’amica, stampati al volo.
Siamo un gruppo di tre o quattro giovani, entusiasti e anche un po’ incoscienti: io appena laureato, gli altri ancora studenti, mi pare. Uno di loro rinuncia, noi proseguiamo; con alcuni di loro, anni dopo ci siamo ritrovati a lavorare assieme in sporadiche occasioni, e ancora oggi, dopo quasi trent’anni…
L’illuminazione è su cavi, tesate tirate in lunghezza per tutto il salone, sistema all’epoca innovativo: peccato che il negozio che sponsorizza fornendo il sistema commercializzi solo una copia del sistema originale: in fase di posa l’elettricista – un amico che si presta gratuitamente al lavoro, tutto si basa sul volontariato… – scopre che i cavi non possono essere appoggiati sui pannelli pena pericolo di dispersione elettrica: dopo vari improperi si inventa un sistema di isolamento artigianale che funziona. Anche questa è fatta.
I disegni saranno appesi con cavetti ai pannelli, un sistema facilmente regolabile per formati differenti (non conosciamo le effettive dimensioni dei disegni): troviamo i ganci e utilizziamo cavetti ed elementi di bloccaggio acquistati da un ciclista… ma funziona. Il modello sarà appoggiato vicino all’ingresso su un grande cubo in compensato verniciato, assemblato in tutta fretta non ricordo nemmeno da quale artigiano, a costo zero ovviamente.
Dicevo: i disegni già incorniciati e sotto vetro stanno arrivando: di corsa a Linate con un paio di automobili dove, dopo affannose ricerche, riusciamo a capire dove sono stati riposti gli scatoloni che li contengono.
Si carica il tutto fiduciosi. Giunti a destinazione – il salone espositivo – pregustando il momento in cui inizieremo a vederli appesi, apriamo gli scatoloni e ci accorgiamo che sono stati riposti uno sugli altri senza protezioni. Risultato: molti vetri rotti. Panico e corsa presso un vetraio amico di amici di un conoscente… che riesce a sostituirli appena in tempo. Arriva anche il pacchetto della casa editrice con il quartino del testo che ho scritto per l’occasione.
Appendiamo le locandine e inizia la presentazione: devo parlare, molto emozionato: sono le prime esperienze. Ho parlato, non ricordo cosa ho detto, ma mi sembra sia andata abbastanza bene. Non è finita: devo accompagnare e spiegare il progetto al politico di turno e a un gruppo di personaggi sconosciuti. Fatta anche questa.
Penso: ultima volta… in futuro ci saranno occasioni più organizzate, tranquille, con più soldi a disposizione, meno adrenaliniche… A questo punto dovrei scrivere: “…e mi sono svegliato tutto sudato… un brutto sogno”. No, è tutto reale. Primo e fondamentale errore di valutazione: sarà sempre così…. non c’è scampo…
Questo vale anche per l’apparentemente semplice organizzazione di conferenze: inviti, locandine, ricerca telefonica degli invitati, compensi, prenotazione della sala conferenze, accogliere l’ospite… Dimenticavo: non esistevano ancora e-mail o telefoni mobili, quindi buste, francobolli, posta, telefonate da fisso, e attese inquiete senza rassicurazione di una chiamata con il cellulare….
Certo rimangono le esperienze vissute con i personaggi, che conosciuti diventano finalmente persone, spesso squisite; a volte ricordi indelebili.
La signorilità di Belgiojoso che racconta fatti e accadimenti di qualche decina di anni prima ma sembrano lontani anni luce; la guerra, gli espedienti, personaggi di altissima caratura che operano con un understatement che oggi ci sogniamo.

BBPR, Tavola di concorso per il Piano Regolatore di Pavia del 1933.

L’umiltà di Wolfgang Frankl – conosciuto anche per un mese circa durante un seminario di progettazione con gli studenti: il primo ad alzarsi al mattino e l’ultimo a terminare la sera: infaticabile e sempre appassionato nonostante l’età avanzata – Volfango o Volf per tutti, palesemente dimenticato dal mondo architettonico e neanche messo bene economicamente che arriva a Pavia, tiene una conferenza sul progetto dell’Istituto Bordoni del 1934 (vedi Scheda n. 11 Mario Ridolfi, Wolfgang Frankl [con Konrad Wachsmann, Vittorio De Amici], Istituto Tecnico A. Bordoni, 1934-37, parte dell’Itinerario Architettura moderna in Pavia e provincia. I maestri, 1904-1945) all’interno della meravigliosa aula conferenze da lui progettata con Ridolfi, spiega dettagli dell’edificio e anche della sua vita, ci lascia meravigliati per la sapienza e l’umanità che emana.
Visti gli interventi che hanno snaturato l’edificio negli anni e altri all’epoca in programmazione si offre di seguire un restauro filologico gratuitamente; ma nessun politico o responsabile se lo fila….

Mario Ridolfi, Wolfgang Frankl, Istituto Tecnico A. Bordoni, Pavia, 1934-37 (foto Chiolini-Musei Civici Pavia).

Enea Manfredini, conosciuto in occasione di un colloquio a Reggio Emilia presso il suo studio in occasione di un lungo articolo che volevo dedicare alla sua opera: uno dei Maestri che avrebbero meritato sicuramente maggiore attenzione da parte di storici e critici. Mi ha invitato con disponibilità inaspettata e aperto le porte di un mondo scomparso illustrandomi con competenza, semplicità, umiltà e rigore – che non hanno mai abbandonato la mia mente e i miei ricordi – progetti, collaborazioni e amicizie tra i maggiori personaggi del Razionalismo italiano, racconti, …
Ha aperto l’archivio – in realtà un mondo a me sconosciuto – mostrandomi disegni e fotografie con una generosità e una modestia che mi hanno stupito. Conoscenza che è proseguita con un’amicizia inaspettata: gli auguri ogni anno a Natale non solo telefonici ma contraddistinti da preziosi biglietti autoprodotti che arrivavano con la posta, mi stupivano ogni volta e che conservo ancora. Ho trascorso il resto della giornata a visitare le sue opere comprendendo la profondità che solo un vero Maestro può raggiungere.
Amicizia che è proseguita con i figli, conosciuti all’epoca, che continuano il suo appassionato lavoro progettuale.

Enea Manfredini, interno del battistero della Chiesa Della Vecchia, Vezzano sul Crostolo, Reggio Emilia, 1953 (Archivio Manfredini).

Altre conoscenze sono proseguite con la partecipazione ad altre conferenze, da Massimo Carmassi all’inizio della sua carriera, che ho accompagnato in itinerari architettonici in Pavia e alla Certosa discutendo di progetti e architettura, di Fabio Reinhart del quale conoscevo alcuni progetti che mi ha fatto scoprire nuovi percorsi presentandone altri altrettanto imperdibili.

Massimo Carmassi, assonometria dell’intervento di ricostruzione del complesso di San Michele in Borgo, Pisa, 1979-91.

Le ricerche su Franco Albini mi hanno invece condotto nella fabbrica di Roberto Poggi con una lunga frequentazione, scoperte di disegni di archivio inaspettati di molti Maestri dell’architettura e soprattutto delle sue spontanee lezioni su come si realizza un mobile, si tratta il legno, i suoi segreti nascosti nei manufatti, oltre a magazzini con pezzi sperimentali, prototipi, cataste di parti non finite e ancora da assemblare, se possibile più interessanti dei pezzi conclusi.
Altre “avventure” si sono succedute nelle mie testarde ricerche di architetture di Maestri noti o meno conosciuti nella provincia di Pavia con scoperte decisamente inaspettate, rovistando come un cercatore di funghi o tartufi in archivi impolverati o semi dimenticati e soprattutto esplorando continuamente il territorio – in genere in moto e con una macchina fotografica a tracolla – verificando alcune intuizioni o notizie frammentarie apprese su libri o semplicemente deviando dalla rotta prestabilita e scoprendo novità inaspettate. Scrivo prestabilita, ma quasi nulla era tale. Per trovare un’architettura con pochi elementi indiziari ero costretto a verificare posizioni intuite, correggere la rotta, ripercorrere moltissime volte percorsi magari errati, fermarmi, chiedere informazioni piuttosto vaghe ad abitanti, soprattutto ad anziani spesso seduti in gruppo magari mentre giocavano a carte, che di fatto si sono dimostrati preziose fonti e memorie storiche. Ricordo ancora che non c’era internet e quindi Google Maps, Street View e altro, strumenti ora insostituibili e preziosi, ma che di fatto non sostituiranno mai la verifica sul luogo, dal vero.

Franco Albini, tavolino Cicognino, 1955, (Archivio Poggi).

Percorrere paesini sperduti, campagne tra fossi, risaie, campi alla ricerca magari di frammenti, residuo di architetture, mi riportava ad avventure trascorse da bambino.
Quando mi sono avventurato nelle campagne attorno a Garlasco, tra percorsi sterrati, risaie, boschi, alla ricerca di qualche resto della Cascina Valbona e della casa sperimentale di Gaetano Ciocca (vedi Scheda n. 12 Gaetano Ciocca, Prototipo di casa rurale, 1935, parte dell’Itinerario Architettura moderna in Pavia e provincia. I maestri, 1904-1945), con esigue possibilità di chiedere informazioni tranne che in qualche sperduta cascina, finalmente ho trovato i resti ancora riconoscibili della casa, accanto a un piccolo edificio rurale in rovina. Ho riconosciuto il volume esterno corrispondente alla scala a elica; per raggiungerla ho saltato un fosso, percorso un tratto cedevole tra due risaie e finalmente sono entrato un po’ timoroso trovando ancora le divisioni interne perfettamente riconoscibili.
Mi tornano alla mente giornate di fine settimana trascorse da bambino nelle campagne attorno a Pavia dove si facevano navigare barchette realizzate con legnetti, tappi di sughero e un po’ di stoffa nelle risaie nel momento in cui non erano ancora spuntate le pianticelle; percorsi misteriosi dentro fossi semi asciutti che sembravano antri fatati dove si trovavano rane, girini e strani animaletti primordiali – ho scoperto in seguito che erano salamandre –; giochi su montagnette di terra che diventavano mondi misteriosi, vette da scalare o microcosmi dove inventarsi improbabili battaglie tra soldatini o percorsi fuoristrada con piccoli modelli di automobili. Giornate che non finivano mai – la percezione del tempo da bambini è dilatata in maniera incredibile – nelle quali ci si annoiava, non c’era niente di programmato (lezioni di nuoto, tennis, corsi di questo e quello…) e la noia diventava un elemento fondamentale attraverso il quale inventarsi giochi, mondi misteriosi e avventure dilatate dalla fantasia che solo un bambino può avere.
Di ricordo in ricordo potrei scrivere per ore delle estati dell’infanzia trascorse in un paesino della Liguria, in campagne e mare immacolati, dove i mesi sembravano anni e le avventure si moltiplicavano costituendo la base di ricordi fondamentali che non mi abbandoneranno mai più. In un testo del libro accenno anche a queste esperienze meravigliose.

Da: J.T. Schnapp (a cura di), Gaetano Ciocca. Costruttore, inventore, agricoltore, scrittore, Skira, Milano 2000.

Oppure ripercorrendo, alla ricerca dei luoghi del progetto di Aalto, sentieri e spiaggette in riva al Ticino nei pressi di San Lanfranco dove ci si bagnava e si giocava con i genitori di fronte al Lido e, parecchi anni dopo, mi infilavo nella canoa riposta nel capannone della “Sciùra Angiulèta” e risalivo la corrente fino a spiagge immacolate di sabbia bianca oppure si scendeva il fiume dal ponte di barche a Bereguardo fino al ricovero citato.
Con gli amici raggiungevamo le spiagge bianche al “Poligono”, si tiravano quattro calci a un pallone e ci si tuffava nelle acque ancora ghiacciate del fiume – parlo di maggio o anche prima – attraversandolo in diagonale e ritornando alla riva di partenza, causa la corrente ancora forte, alcune centinaia di metri più a valle. Si usciva dall’acqua con la pelle violacea e ci si coricava al sole per scaldarsi “le ossa”, dopo inverni nebbiosi. La giornata si concludeva con una tazza di gelato affogato nel latte in qualche latteria di paese.

Alvar Aalto, piante dei piani terra e tipo dell’edificio per studenti, progetto di quartiere residenziale “Patrizia” a Pavia, 1966 (Archivio Febbroni).

Da architetto, dopo la lettura del libro di luoghi utopici di Irene Bignardi, sono partito alla volta di Monte Verità, un luogo mitico dove si sono intrecciate storie a volte paradossali. Luogo ancora vivo grazie alle trasformazioni attuali e nel quale sono ritornato più volte, attratto da una sorta di forza magnetica che emana. Ritrovare frammenti di architetture del primo nucleo di abitanti votati al vegetarianesimo, nudismo, libero amore, anarchia, accanto a edifici rivestiti di legno e privi di angoli dettati dalle più strane teorie, scuole di danza d’avanguardia, edifici razionalisti, ampliamenti contemporanei, suscita impressioni ineguagliabili; i migliori artisti del Novecento di differenti discipline sono vissuti o transitati in questo luogo rendendolo unico. Un frammento di storia molto complessa conservato e ancora magico che ha un fascino inarrivabile.

I “balabiòtt” a Monte Verità (da: A. Schwab, C. Lanfranchi [a cura di], Senso della vita e bagni di sole, Fondazione Monte Verità, Ascona, Svizzera, 2001).

Di altre avventure scrivo in un testo dedicato a Pavia moderna, al paesaggio della memoria, ai nomi dei luoghi; testo introdotto da una breve premessa dedicata al luogo di elezione della mia infanzia. Le lunghissime estati di un bambino, come ho scritto, quando un giorno dura un mese, un mese un anno: una sensazione di tempo infinito. Mi fermo qua, ma potrei continuare all’infinito a raccontare le piccole avventure quotidiane diventate mitiche nel ricordo.