Il volume di Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini, edito da Hoepli, restituisce su carta gli esiti di un approfondito lavoro di ricerca su cinquant’anni di interni milanesi. Un’indagine svolta dapprima sulle riviste d’architettura, poi nelle biblioteche e negli archivi, ma soprattutto sul campo, con un’appassionata e paziente attività di acquisizione dei contatti per visitare, studiare e fotografare gli appartamenti privati ancor oggi conservati. Tra le pagine sono documentati duecentoventi interni, molti dei quali sono delle vere e proprie scoperte anche per gli addetti ai lavori. Colpisce nell’insieme la chiarezza e la sistematicità della rappresentazione dei contenuti, che rispecchia un metodo di lavoro originale ma allo stesso tempo consolidato: planimetrie in scala 1:200, fotografie storiche, disegni originali di progetto e fotografie all’oggi costituiscono i capisaldi di un racconto estetico e analitico che percorre gli anni più rappresentativi nel progetto della casa milanese. Attraverso questa ricercata descrizione degli interni emerge con forza un’identità complessiva della città di Milano, espressione di una singolare koinè culturale che si sviluppa in un irripetibile intreccio tra architetti, committenti e spazi da progettare, con uno sguardo sempre rivolto alla straordinaria peculiarità del design italiano.

Vittoriano Viganò, Casa Sarfatti, 1953 ©IUAV – Archivio Casali.

I progetti sono stati raggruppati intorno a cinquantacinque temi che esprimono con penetrante sinteticità il punto di vista degli autori sugli esempi illustrati: così “Spazi autobiografici” introduce alle case progettate dagli architetti per loro stessi e “Messa in scena” racconta della rappresentatività e della relazione di senso tra l’involucro e il contenuto. “I padroni del vapore” descrive attraverso gli interni il fecondo e decisivo rapporto tra imprenditori, borghesia industriale e architetti nella Milano del boom economico, mentre “Lavorare in sezione” ci parla di come le variazioni di quota nel progetto di architettura possano fare la differenza nella ridefinizione dei luoghi dello stare. Questi e altri, sempre all’insegna dell’originalità, sono temi trasversali che restituiscono in maniera articolata e colta i risultati di una ricerca inedita sulla casa moderna, sui suoi princìpi e sulle sue specificità. Gli spazi – suggerisce Simona Pierini – possono essere visti come famiglie di azioni progettuali: si possono delimitare, ampliare, ordinare, centrare, concatenare, comporre, abitare, disegnare, fotografare, e attraverso queste categorie acquisiscono senso.

Ettore Sottsass, Casa Sottsass Pivano, 1957 ©IUAV – Archivio Casali.

Gli esempi proposti – benché essenzialmente nell’ambito della residenza borghese – riassumono in un quadro che è arduo classificare come non definitivo l’idea dello spazio domestico milanese a partire dal 1928, anno in cui sono fondate le due principali riviste italiane dedicate alla casa: “Domus”, diretta da Gio Ponti, e “La Casa Bella”, che rimarranno fondamentali per il dibattito architettonico durante tutto il secolo scorso e fino a oggi. Intitolando La casa all’italiana il suo primo editoriale sulla rivista “Domus”, Gio Ponti aveva programmaticamente rivendicato la centralità del paesaggio domestico: la casa non è soltanto una machine à habiter che possa soddisfare le necessarie esigenze materiali della vita, ma “deve avere una personalità sul piano della civiltà di chi l’abita”.

Luigi Caccia Dominioni, Casa Mondelli, 1961 ©fotografia Valentina Angeloni.

Se negli altri paesi europei il dibattito verte inevitabilmente sulla casa minima, la cultura architettonica italiana tende a rielaborare l’esperienza razionalista in una prospettiva del tutto originale, dove insieme alle questioni tipologiche il rapporto con la storia diviene decisivo per ogni attività di progetto. La tradizione, a partire dalla grande stagione neoclassica, interviene nell’esperienza moderna come elemento imprescindibile, dando vita a singolari e irripetibili sinergie culturali in grado di avvicinare gli architetti e gli artisti, i committenti e le imprese, il nuovo e l’antico. Un rinnovato orizzonte estetico condiviso che come un filo rosso percorre progetti di personalità molto diverse tra loro, per le quali l’eleganza del gesto progettuale è sintomo di una cultura alta e di un operante legame con il passato. Proprio in quest’ottica, quando nel dicembre 1953 Ernesto Nathan Rogers assumerà la direzione di “Casabella”, aggiungerà al titolo della rivista – uscita nel gennaio 1954 – il sottotitolo “Continuità”, interpretando con estrema sensibilità non soltanto il senso della ricostruzione del dopoguerra ma la particolarità dell’esperienza italiana e milanese. Qui la classicità non è affatto citazione storicistica ma rielaborazione di quelle forme che si rivelano significative per costruire nuovi e più aggiornati assetti spaziali, indipendentemente dagli esiti finali e dalle prerogative stilistiche di ciascun progettista.

Vito Latis, Casa Latis Tingdall, 1956 ©Domus.

In questa chiave è possibile comprendere meglio la specificità e l’evoluzione della casa moderna milanese, sviluppata all’interno del volume a partire dalla significativa esperienza del Novecento fino alla fine degli anni Settanta. Se nella prima Mostra di Architettura della Biennale di Venezia, nel 1980, il curatore Paolo Portoghesi sceglieva come tema La presenza del passato, riflettendo sul rapporto tra casa e città, possiamo dunque comprendere quanto questo tema abbia orientato il discorso sull’architettura e sull’abitare lungo tutto il secolo scorso. Ma proprio in quell’occasione si determinava una forte cesura nel pensiero critico: nelle corderie dell’Arsenale si allestiva la Strada Novissima che con le sue venti facciate prive di uno spazio interno, disegnate da architetti italiani e internazionali, sanciva – come afferma Enrico Morteo nell’Epilogo del volume – “la fine di un’ideale continuità tra la cellula abitata, la casa e la città che era stata alla base dello sviluppo del progetto moderno”. Il terreno comune che aveva visto un’implicita comunità d’intenti tra le esperienze progettuali sul tema della casa improvvisamente viene a mancare, e in questa “diaspora culturale” il racconto degli spazi dell’abitare non può che interrompersi.

Cesare Macchi Cassia, Casa Macchi Cassia, 1962 ©fotografia Mimmo Capurso.

Questo imponente lavoro editoriale e di ricerca, quindi, trova il suo senso più intimo nell’ottica di una possibile tutela di quel patrimonio architettonico così attentamente indagato e illustrato. Il rischio, oggi, è che quegli spazi si possano snaturare o perdere: molti degli interni documentati non sono più esistenti; altri, che già vivono di equilibri fragili, dovranno ciclicamente fare i conti con le problematiche connesse agli interventi di ammodernamento tecnologico. La raffinatezza e l’unicità delle soluzioni tecnico-costruttive del passato rende il tema del restauro del moderno delicato e quanto mai decisivo nel quadro di un’auspicabile e necessaria tutela dei manufatti architettonici.
Per la quantità e l’importanza degli interni proposti nel libro sarebbe impossibile citarne alcuni tralasciandone altri, insieme agli architetti che li hanno progettati: alla lettura del volume lasciamo la forza di questo racconto che costituisce uno dei principali motivi per cui la città di Milano è così nota a livello internazionale, cioè per aver delineato in maniera esemplare e con continuità i presupposti per una cultura del progetto condivisa.