Il primo significativo incontro con Bruno Munari risale al 1980, quando studentessa all’Accademia di Belle Arti a Milano iniziai a interessarmi al mondo della ricerca artistica. Incontrai spesso Bruno Munari durante i laboratori per bambini a Brera e nell’81 incominciai una raccolta di testimonianze e scritti dal titolo Bruno Munari fra sperimentalismo e didattica; confesso che a distanza di quasi quarant’anni, ancora oggi prendo spunto da quegli scritti per le mie lezioni sul design e sul colore.
II primo grande insegnamento che ho avuto da Munari, e che ancora oggi considero fondamentale, sia come artista sia come operatrice visuale è questo: “C’è un modo di copiare la natura e c’è un modo di capire la natura. Copiare la natura può essere una forma di abilità manuale e può anche non aiutare a capire per il solo fatto che ci mostra le cose come normalmente si vedono. Studiare invece le strutture naturali, osservare l’evoluzione delle forme può dare a tutti la possibilità di capire il mondo in cui viviamo”.

Per Munari l’arte è, ed è stata, il tentativo di rendere accessibile alle capacità di accezione comune la multiforme visione della natura, che al di là della sua apparenza caotica ha strutture precise.
Si tratta di vedere la realtà di queste strutture e di tradurla nell’ambito semantico in cui agisce l’artista.
L’intuizione sta alla base della disposizione creativa, il cui sviluppo segue una sua logica interna; vale a dire che, se l’idea iniziale è casuale, lo svolgimento poi segue la ricerca di una regola.
Le ricerche di Munari si espressero inizialmente nel clima ricco di stimoli culturali, che si ritrovava nell’ambito della galleria del Milione e nel secondo futurismo; Munari si mosse soprattutto sulla via aperta da Josef Albers, in direzione cioè di un’analisi grammaticale del linguaggio pittorico e plastico.
Anche Piet Mondrian fu fondamentale per l’esperienza di Munari: gli interessò la rigorosa strutturazione dello spazio, il colore e la forma che esprimono solo se stessi, l’unificazione di forme attraverso l’opposizione continua. I suoi primi quadri astratti, come lui spiega, erano forme geometriche, senza riferimento con la natura esteriore; poi pensò che sarebbe stato interessante liberarle dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegandole tra loro in modo da farle vivere in un ambiente.

Furono progettate così le prime “macchine inutili”, esposte per la prima volta a Milano nel ’33. Anomali perché non erano né pittura né scultura, antimonumentali, come del resto lo è tutta l’opera di Munari, questi oggetti sospesi e inconsistenti suscitarono la reazione irritata del pubblico, che non ritrovava in loro i modelli estetici cui era abituato. Questi insoliti oggetti mobili, prima costruiti con bacchette di legno e forme di cartoncino, poi con alluminio e lastre metalliche leggere, muovendosi spinti dall’aria creavano nuovi insiemi formali. In seguito, vennero realizzati con materie plastiche colorate e trasparenti, così che, oltre alle forme combinate dal movimento, si potevano vedere anche combinazioni cromatiche; progettate con facce diverse, in modo da rappresentare combinazioni varie ruotando, rappresentano un passaggio dall’arte figurativa da due o tre dimensioni alla quarta: il tempo. Il movimento, la velocità e tutti i casi della dimensione temporale non sono, secondo Munari esprimibili con tecniche statiche, meglio usare tecniche cinetiche. Lo stesso dinamismo dei futuristi diventa statico e comunica confusione, quando lo si ferma in un quadro.
Secondo Filiberto Menna, le strutture delle macchine inutili sono costruite sulla base di rigorosi rapporti armonici, i quali tengono insieme una serie di elementi geometrici, consentendo nello stesso tempo un ambito vastissimo di movimenti possibili: inserite attivamente nello spazio per il tramite del movimento reale, le macchine inutili assumono il significato di strutture cinetiche in continua trasformazione.
Nelle ricerche di “aritmia meccanica” che Munari mette a punto nel dopoguerra, la funzionalità della macchina si accompagna alla gratuità del gioco. Il movimento delle macchine era prodotto da energie naturali, ma anche meccaniche ed elettriche. “Cercai di far agire questa energia che si potrebbe dire casuale, favorendo dei movimenti aritmici per mezzo di parti elastiche e flessibili, con pesi che determinano degli squilibri; così da rendere meno regolare il funzionamento di una macchina specialmente se il suo funzionamento è assolutamente inutile e improduttivo”.

Nel 1948 Munari contribuisce a fondare il Movimento per l’Arte Concreta. Il termine “concreto” scrive Guido Ballo, al di là di distinzioni troppo sottili, ebbe soprattutto valore polemico per indicare che l’astrazione delle arti si risolve in pura concretezza di mezzi visivi, quali colore, luce, linee, masse plastiche.
Secondo Gillo Dorfles la corrente concretista andava alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base del dipinto, senza che la loro possibile analogia con alcunché di naturalistico avesse la minima importanza.
Un modulo grafico era il primo movente della creazione pittorica: modulo che poteva derivare da un impulso dinamico non perfettamente cosciente e razionalizzato, ma che più spesso era la ricerca precisa e lucida d’una determinata forma. Il manifesto di Dorfles precisa la prima fisionomia del MAC, in seguito si affacciano alcune proposte che tendono ad affrontare temi proposti dalla realtà industriale. “Si rende necessario un energico intervento della fantasia creatrice per tentare nuove aperture di orizzonti, sulla base del linguaggio visivo ormai conquistato. Come pretendere, infatti, che oggi il pubblico si interessi ancora di problemi pittorici o plastici quando è abituato a vedere tutto ciò già concretamente risolto nel cinema, nella pubblicità luminosa, nei grandi plastici reclamistici delle Fiere internazionali dove ogni mezzo, il più moderno, il più nuovo possibile, è usato per attrarlo e comunicargli le ultime invenzioni del progresso? L’arte è dunque morta o ha soltanto cambiato aspetto senza che molti se ne accorgano? L’arte non è morta, ha soltanto cambiato indirizzo ed è qui che bisogna cercarla. Al vecchio non risponde più”.
Questo scritto rispecchia pienamente le idee di Munari, che in quello stesso periodo pubblica sulla rivista “AZ”: “Uscite dallo studio e guardate anche le strade, quanti colori stonati, quante vetrine potrebbero essere belle, quante insegne di cattivo gusto, quante forme plastiche sbagliate. Perché non intervenire? Perché non contribuire a migliorare l’aspetto del mondo in cui viviamo insieme al pubblico che non sa cosa farsene della nostra arte?”. È qui evidente l’adesione all’impegno progettuale di intervento verso l’ambiente urbano, che è una delle costanti dell’attività artistica di Munari. Come egli dirà più tardi: “È più giusto occuparsi di problemi sociali, che di problemi individuali, i problemi sociali riguardano la collettività, la quale è qualcosa che è sempre esistito e che esisterà sempre, finché ci saranno individui. La crescita culturale della collettività dipende da noi come individui”. Coerente con questi principi Munari contesta l’individualità irripetibile del “pezzo unico”, a favore dei multipli, con possibilità di duplicazione illimitata. Per Munari una decorazione statica, dopo che ha trasmesso il suo messaggio, non interessa più e si sente il bisogno di ricevere altri messaggi; immagini dinamiche, forme cinetiche, cose che cambiano e si trasformano continuamente. Gli oggetti concavo–convessi (’48-’65), costruiti con reti metalliche curvate e fissate a una data forma, possono essere appesi al soffitto di una stanza e, con un proiettore a luce puntiforme da un lato, proiettare un’ombra continuamente mutevole sul muro, sul soffitto, o dove si vuole, secondo le posizioni del proiettore. Tutte le linee incrociate e sommate dell’oggetto, nella proiezione contro le pareti della stanza danno un effetto di movimento continuo e mutevole.
L’interesse dell’artista per i problemi della comunicazione visiva lo porta ad esplorare i fenomeni ottici che stanno alla base del linguaggio visuale.

Oltre a tutta la gamma dei contrasti cromatici, si possono sperimentare contrasti tra negativo e positivo, tra geometrico e organico, tra statico e dinamico, tra concavo e convesso appunto.
Il dinamismo vitale dipende per Munari dall’equilibrio di forze opposte, un equilibrio non statico, ma incontinua mutazione.
La serie dei dipinti positivi-negativi ha un antecedente in Anche la cornice del ’35. Con questo elemento Munari aveva eliminato la funzione della cornice, che diventava un elemento dello spazio pittorico.
Nei positivi-negativi, esposti a Parigi nel ’51, ogni elemento della composizione può essere considerato sia in primo piano, sia come fondo; ne deriva un dinamismo di forme che si spostano avanti e indietro nello spazio ottico percettivo dello spettatore.
Con questa ricerca Munari tende ad evadere dai limiti del quadro e arrivare uno spazio autonomo, non più dipendente dal telaio del supporto, ma generato dalle forme stesse. La novità del suo linguaggio visuale, il rifiuto delle tecniche del passato, da lui ritenute inadatte alle necessità della comunicazione visiva, non significano un rifiuto della tradizione estetica. Munari ritiene che la tradizione raccolga un patrimonio comune di manifestazioni di fantasia, invenzione, creatività, continuamente verificate e sostituite quando risultano superate; così la tradizione è la somma in continua mutazione dei valori oggettivi utili alla gente. Ripetre continuamenteun valore, non vuol dire continuare ia tradizione, ma fermarla. La tradizione è legata alla collettività, che deve rinnovarsi se non vuole deperire.

Bruno Munari. Creatore di forme     La rassegna Bruno Munari Creatore di forme presenta una serie di opere storiche, come una Macchina Aritmica del 1951, un esemplare di Concavo-Convesso, mai più esposto a Milano dopo l’antologica di Palazzo Reale del 1986, e una Macchina Inutile del 1956, che portano ad avvicinarsi alla poetica multiforme della “macchina” quale apparato scenico essenziale, leggero e divertente.
In modo del tutto complementare Munari sviluppa la ricerca sul dinamismo delle forme anche in ambito percettivo. L’autore evita accuratamente di mostrare una composizione fissata in un certo istante, crea, invece, pitture dinamiche, instabili e complesse.
In mostra si può ammirare un prototipo, esemplare unico, di Tetracono del 1965, alcuni Negativi-positivi su tavola dei primi anni ’50, e la pittura cromo-cinetica realizzata con filtro Polaroid rappresentata da un Polariscop degli anni ’60.