La volontà di ricostruire letterariamente il rapporto fra amici architetti è l’incipit che anima questo libro di Marco Adriano Perletti, che intravede nell’uso equilibrato delle parole e del linguaggio la possibilità di far trasparire le forme dell’architettura.
Riportare alla luce la loro idea di architettura in maniera trasversale e penetrante diviene così il paradigma della forma letteraria di questo testo, che con intelligenza conferisce alla parola “amicizia” un valore culturale, di unione intellettuale di persone il cui denominatore comune è la provenienza (il Canton Ticino) e la passione per una disciplina.

Livio Vacchini, Palestra, Losone, Svizzera, 1995-97. Foto di Alberto Flammer.

La prima parte del volume riguarda le interviste / conversazioni, avvenute nell’arco degli anni. Con Mario Botta, Aurelio Galfetti e Luigi Snozzi in presa diretta, mentre con Livio Vacchini, scomparso nel 2007, il tramite è la figlia Eloisa (che è anche autrice della postfazione), con la quale rilegge gli scritti e i disegni del padre. Le conversazioni hanno un canovaccio ben cadenzato da Perletti: i temi, gli inizi, il Canton Ticino, l’architettura, e infine la didattica con la costituzione dell’Accademia di Mendrisio nel 1996. Un discorso a parte e consequenziale è invece dedicato ai giovani, quale speranza per l’avvenire dell’architettura, apprendisti di bottega e studenti universitari.
Il dialogo con i maestri è intenso e intrigante. Ne esce il profilo di un giovane Botta che a Venezia, ancora studente dello IUAV, collabora con Le Corbusier nel progetto dell’Ospedale di Venezia (1963-64), e in seguito con Louis Kahn per il progetto del Palazzo dei Congressi di Venezia, frutto di un intenso lavoro svolto tra il 1968 e il 1972, di cui è in corso adesso una mostra a Mendrisio. Infine, il rapporto con il grande Carlo Scarpa, suo relatore di tesi di laurea, discussa allo IUAV nella primavera del 1969.

Aurelio Galfetti, restauro della fortezza di Castelgrande, Bellinzona, Svizzera, 1981-91; 1992-2000. Foto di Stefania Beretta.

Altro tema importante, sottolineato da Perletti nel volume, è la questione del lavoro insieme praticato negli studi professionali ticinesi, dove i quattro architetti affilano gli strumenti teorici e pratici. Fra i maestri forse il principale è Rino Tami, maestro di mestiere e di etica per questa generazione di professionisti colti, affermato progettista di infrastrutture nel cantone della Svizzera italiana.
L’architettura come significato differenzia idealmente l’azione dei quattro amici: il dibattito teorico è secondario all’opera realizzata secondo Galfetti, mentre l’opinione di Vacchini è che ogni opera sia utile per gli altri colleghi come ricerca scientifica. L’elemento accomunante è la passione per l’architettura e non le personali convinzioni di vita; non c’era infatti identità di vedute, ma comunità di passione… chi prediligeva il cantiere, chi l’aristocrazia di condotta, chi lo schieramento politico. Botta e Galfetti inoltre s’impegnano assiduamente sull’idea dell’Accademia di Mendrisio come progetto umanistico, in contrapposizione con i due politecnici svizzeri di Zurigo e di Losanna, che invece avevano un’impronta più tecnico-tecnologica.

Mario Botta, Cappella Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro, Svizzera, 1990-96. Foto di Enrico Cano.

Nella seconda parte del testo Perletti analizza l’attualità di un’idea di architettura come estrazione di punti di contatto fra i quattro architetti, e li definisce come “presupposti ricorrenti”. Le relazioni tra natura e cultura, la trasformazione dell’architettura come valore, il rapporto umanistico tra architettura e contesto. Le differenti formazioni universitarie sono fondamentali nella costituzione di un gruppo con plurime visioni sul mondo e sull’architettura; Snozzi, Vacchini e Galfetti studiano al Politecnico di Zurigo, mentre Botta, come già detto, si forma allo IUAV, ed è qui che il rapporto con il contesto è più sentito e diviene linfa vitale per la futura costituzione dell’Accademia.

Luigi Snozzi, Casa Kalmann, Brione sopra Minusio, Svizzera, 1974-76. Foto di Wojciech Kaczura.

Il libro si chiude con analisi più precise sulle opere degli architetti e Perletti si concentra sulle loro architetture ticinesi, che segnano gli inizi e le parti centrali dell’attività dei quattro architetti. Il paesaggio svizzero nel classico rapporto tra montagna e lago, nel rispecchiamento delle cime nell’acqua, nel lago considerato come piano geometrico di fondazione e riflessione dell’architettura, diviene il laboratorio di sperimentazione dei quattro giovani professionisti. Riflessioni profonde che troveranno la loro sponda teorica nell’Accademia di Mendrisio, dove gli amici ticinesi si sono confrontati con architetti e teorici di tutto il mondo, mettendo a frutto la loro esperienza sul campo nella diffusione del sapere agli studenti.
Il libro di Perletti restituisce così una fotografia univoca di mezzo secolo di storia dell’architettura ticinese, tessendo un reticolo di relazioni finora inesplorato con questa chiave di lettura, l’amicizia.