Il volume di Fulvio Irace, edito da 24 ORE Cultura, costituisce una versione rivista e aggiornata dello storico e ormai introvabile Milano Moderna. Architettura e città nell’epoca della ricostruzione, uscito nel 1996 per i tipi di Federico Motta Editore. Quel libro – il cui titolo conteneva un esplicito riferimento alle omonime edizioni che Gio Ponti pubblicava alla fine degli anni Cinquanta – aveva avuto lo straordinario merito di portare nel dibattito sull’architettura milanese alcuni temi e autori legati al secondo dopoguerra e alla ricostruzione che erano stati colpevolmente dimenticati o messi in secondo piano dalla cultura accademica.

La copertina del libro pubblicato nel 1996.

Gli edifici di Luigi Moretti, Asnago e Vender, Luigi Caccia Dominioni – magistralmente raccontati dalle fotografie in bianco e nero di Gabriele Basilico e Paolo Rosselli – sono attualmente oggetto di un rinnovato interesse proprio a partire dall’intuizione contenuta in quelle pagine di un quarto di secolo fa. Allo stesso modo il Condominio milanese degli anni Cinquanta, espressione di una modernità ancor oggi studiata e approfondita a livello internazionale, era stato individuato come nucleo di un sistema culturale diffuso in grado di rappresentare la città di Milano come laboratorio a cielo aperto dell’architettura moderna, attraverso il lavoro di “professionisti colti” fino a quel momento poco riconosciuti, come Giulio Minoletti, Vito e Gustavo Latis, Gigi Gho’, GPA Monti. Architetti che ben comprendevano come solo attraverso la conoscenza della città si potesse affrontare il delicato tema degli interventi nel costruito, ma soprattutto in grado di tenere insieme la complessità della dimensione urbana e la leggerezza della nascente industria del design nello sviluppo dell’architettura residenziale.
Il libro di Irace non era e non è una guida di architettura: non segue criteri localizzativi, né ha la pretesa di raccontare la città attraverso la descrizione dei singoli edifici, ma li presenta secondo il contributo che ciascuno di essi dà rispetto a una possibile identità urbana. Nei suoi testi si apprezza quella dimensione critica che costituiva un elemento imprescindibile delle più importanti guide sull’architettura milanese dello scorso secolo, quelle in cui il racconto delle dinamiche urbane – ancorché talvolta ideologico – prevaleva sulla mera descrizione dell’oggetto architettonico.

Giulio Minoletti, Giuseppe Chiodi, Lodovico Lanza, casa ai Giardini d’Arcadia. Foto: Marco Introini.

La recente pubblicazione di Milano Moderna ha un nuovo sottotitolo: architettura, arte e città 1947-2021. I recenti testi di Fulvio Irace – che spingono il discorso sulla città moderna fino alla contemporaneità – sono accompagnati da un ricco apparato fotografico con scatti, oltre che di Gabriele Basilico e Paolo Rosselli, di Marco Introini, Filippo Romano e Giovanna Silva.
Passando per la stagione dell’inquietudine – il Gallaratese di Aymonino e Rossi – Irace racconta dell’ultimo Ponti e fa un’interessantissima e articolata digressione sul rapporto e sulla sintesi tra arte e architettura, in cui si distinguono le figure di Lucio Fontana, Roberto Crippa, Gianni Dova, Francesco Somaini, Antonia Tomasini, Arnaldo e Giò Pomodoro, Carlo Ramous.

Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, palazzo per uffici Montedoria, vie Andrea Doria – Pergolesi, 1963-70. Vedute da piazza Caiazzo. Foto Paolo Rosselli.

Già dalle differenze riscontrate osservando la copertina del volume emerge il filo rosso che lo caratterizza, cioè la contrapposizione tra contemporaneità e modernità: sullo sfondo bianco le foto a colori in prima di copertina– che raffigurano la “Milano modernissima” – si differenziano dal bianco e nero delle ormai celebri architetture moderne che erano state protagoniste della prima edizione, tutte in quarta di copertina. Le architetture rappresentate a colori, tra quelle della contemporaneità, sono gli edifici a cui è riconosciuto dall’autore una sorta di “contenuto creativo”, una qualità intrinseca che riesce ancora a instaurare una dialettica, anche costruita per opposizioni, con la città. Le architetture in bianco e nero, invece, se nel 1996 erano state proposte al grande pubblico come capisaldi permanenti del moderno milanese, oggi sono da considerarsi in pericolo, perché devono fare i conti con le problematiche connesse al restauro e agli interventi di ammodernamento tecnologico dettati dalla cosiddetta sostenibilità ambientale, rischiando di essere snaturate nella loro immagine e nel loro senso. Il rischio è quello di perdere tutto questo patrimonio architettonico, che vive di equilibri fragili e di raffinate e talvolta irripetibili soluzioni tecnico-costruttive.

Herzog & de Meuron, Fondazione Feltrinelli. Inserimento nel quartiere di Porta Volta. Foto Filippo Romano.

Ma il tema del futuro della città moderna si intreccia inevitabilmente con quello della città contemporanea, dove l’architettura è sempre più subordinata al real-estate e i programmi urbani a logiche di natura finanziaria. Molti progetti, come City Life e Porta Nuova, non rispondono più al genius loci che aveva caratterizzato l’esperienza milanese nella stagione del dopoguerra ma risultano espressioni di un nuovo modello in cui i grandi gruppi finanziari alla ricerca di investimenti finiscono quasi per essere attori unici della pianificazione urbana. “Nella costruzione di questo immaginario” – scrive Irace – “all’architettura è chiesto di dispiegare la potenza mediatica delle sue forme: l’iconismo – tratto distintivo dello star system – è lo strumento per superare i conflitti, avvolgendoli nella maschera di seducenti prefigurazioni che hanno il compito di far dimenticare la natura speculativa dell’intervento”.

SANAA (Kazuyo Sejima, Ryue Nishizawa), Campus Bocconi. Foto Filippo Romano.

A differenza di quanto avveniva nel dopoguerra, oggi la regia del progetto non è più in mano a urbanisti e architetti; tuttavia l’architettura può sopravvivere alle condizioni mutate, e la ricerca di occasioni in cui si riparta dalla centralità del progetto è ancora possibile: ne sono prova la Fondazione Prada, dove OMA ha affiancato alla grana fine dei vecchi spazi industriali alcuni potenti edifici contemporanei, e il Memoriale della Shoah dove Guido Morpurgo e Annalisa de Curtis, rispettando l’originario assetto funzionale dell’ingresso sul lato sud-est della Stazione Centrale, costruiscono un evocativo e commovente percorso della memoria. E ancora il MUDEC (Museo delle Culture) di David Chipperfield negli spazi ex Ansaldo, la Fondazione Feltrinelli di Herzog & De Meuron a Porta Volta, l’ampliamento dell’Università Bocconi di Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects) e il nuovo campus Bocconi firmato SANAA (qui).
Nonostante in molte occasioni la ricerca ossessiva del nuovo rischi inevitabilmente di cancellare memoria e tradizione, questi interventi di rinnovamento urbano ci confermano che per Milano possono sussistere ancora i presupposti per un’architettura civile e una cultura del progetto condivisa, come è avvenuto nell’esperienza del dopoguerra.

Porta Nuova-Varesine, veduta lungo viale della Liberazione. In primo piano, Kohn Pedersen Fox Associates, torre Diamante. Sullo sfondo le torri Solaria e Aria di Bernardo FortBrescia e Laurinda Spear (Arquitectonica). Foto Filippo Romano.