Una conversazione tra Simona Antonacci ed Emmanuele Lo Giudice
Visitare la mostra Guido Guidi. Col tempo 1956-2024, presso la Galleria 1 del Museo MAXXI di Roma, aperta al pubblico fino 27 aprile 2025, ci permette di scoprire il lavoro di uno dei più importanti fotografi italiani del ’900 Guido Guidi. Ancora pochi giorni quindi, ma preziosi per chi non avesse ancora visto questa mostra, che rappresenta attualmente la più estesa mai realizzata sul fotografo, ormai ottantaquattrenne nato a Cesena il primo gennaio 1941. Guido Guidi è un fotografo di una sensibilità immaginifica incredibile che con il suo lavoro ha influenzato generazioni di fotografi, soprattutto sul suo concetto poetico di visione e paesaggio.
L’aspetto più interessante di questa mostra (qui, su weArch) è soprattutto legato al taglio curatoriale che Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia hanno dato al progetto. Partendo dal suo archivio privato, i curatori sono andati alla scoperta di più di 400 opere, molte delle quali inedite, mostrandoci un lato nascosto del grande fotografo ed istaurando con quest’ultimo un rapporto privilegiato, quasi intimo e personale che ha contribuito a dar vita a questa mostra. Per l’occasione ho incontrato una delle curatrici della mostra, Simona Antonacci, che ci racconterà la sua visione sul fotografo e sulla mostra.

Guido Guidi, San Vito 2007, ©Guido Guidi, Courtesy Collezione Fotografia MAXXI Architettura e Design contemporaneo.

ELG: Simona, è un piacere incontrarti e dialogare con te su questo splendido progetto. Sono tante le domande che vorrei farti, ma la prima fra tutte è, com’è stato lavorare accanto ad un maestro della fotografia come Guido Guidi? Scoprire il suo lavoro all’interno dei suoi spazi privati, l’archivio, i suoi luoghi domestici, i suoi strumenti più intimi, deve essere stata un’esperienza unica.

SA: Ti ringrazio Emmanuele, in effetti cogli nel segno quando dici che è stata un’esperienza unica: vedere il lavoro di Guidi in relazione al suo archivio, in una cascina a Ronta di Cesena, che per lui è casa, studio, archivio, “tana” e allo stesso tempo crocevia di incontri e scambi, ha illuminato la comprensione della sua ricerca in generale. L’archivio è un luogo in cui operano un tempo e una processualità circolare fatta di scoperte, riprese, varianti, casualità, insistenze e per questo con i curatori Antonello Frongia e Pippo Ciorra lo abbiamo scelto come punto d’accesso privilegiato alla “teoria” di Guidi. Inoltre questo luogo, il suo spazio fisico così come i suoi dintorni più prossimi, sono spesso i soggetti delle sue fotografie, ed è stato interessante scoprire come questi vengano visti da lui. In mostra l’atmosfera che si vive nell’archivio, e anche il lento ritmo di lavoro al suo interno, sono testimoniati da un video a tre canali che si trova in apertura, realizzato dal regista e fotografo Alessandro Toscano. Il video è costruito su suggestioni, indizi, rimandi tra le immagini, mentre suoni e parole sono solo accennate, nulla insomma è mai pienamente rivelato. A chiusura della mostra, poi, si torna all’archivio, protagonista di due sequenze: Raccolta indifferenziata e In archivio, realizzata nel 2024 su incarico del MAXXI. Entrambe si concentrano su un paesaggio quotidiano di assoluta prossimità, svincolate come tutto il lavoro di Guidi da limiti di soggetto e gerarchie di genere.

Guido Guidi, Porto Marghera, 1988 ©Guido Guidi.

Ci racconti com’è nata l’idea di questa mostra così mastodontica: più di 400 fotografie?

Volevamo fare una vasta mostra di ricognizione su un maestro della fotografia contemporanea come Guido Guidi, una mostra classica, che potesse testimoniare in modo esteso e approfondito la profondità della sua ricerca. Nel lavoro di Guidi quella che chiamerei “l’unità di misura” è la sequenza fotografica: per questo abbiamo organizzato il percorso attraverso una sorta di capitoli, che ripercorrono la sua opera attraverso 39 sequenze, tutte montate dallo stesso Guidi, insieme a noi naturalmente, a partire dalle migliaia di fotografie presenti nel suo archivio. Ridurre non è stato semplice, ma crediamo che questa ampiezza permetta di testimoniare con pienezza la sua ricerca, e anche che, in fondo, questa estensione restituisca quel senso di stordimento, di sopraffazione, che si può avare davanti ad un’entità così complessa e dalle infinite possibili declinazioni come l’archivio.

Guido Guidi, Fosso Ghiaia, 1972 ©Guido Guidi.

Qual è stato il momento più difficile nella progettazione e realizzazione di questa mostra?

Il momento più difficile nella progettazione è stato proprio – come sempre – la scelta della direzione da dare al progetto: se in astratto è facile pensare all’idea di una grande mostra monografica, che ripercorra gli aspetti salienti della ricerca dell’artista, dall’altra mettere poi in fila i progetti, selezionarli, accogliere e omettere, dare un senso compiuto, mettere in fila le cose, costruire un discorso, è sempre la parte più difficile da condurre. C’è stato un momento di svolta, però: quando abbiamo capito che aveva senso lasciare che fosse proprio Guidi a guidarci, e dunque lasciare che la mostra diventasse “la sua opera più recente”, rendendo il percorso di mostra una vera e propria “installazione visiva” che lavora per sequenze e si muove su una sorta di leporello ambientale, sapientemente disegnato dall’architetto Benedetto Turcano. Abbiamo accolto l’idea che non dovesse esserci “tutto”, che non dovessero esserci i lavori che “in assoluto” fossero i più rilevanti, ma che ci fosse “quello che funzionava”, che poi è il principio cardine della sequenza guidiana.

Guido Guidi. Col Tempo, 1956-2024, veduta della mostra al museo MAXXI di Roma. Foto: Vincenzo Labellarte (Courtesy Fondazione MAXXI).

Il tuo rapporto privilegiato ti ha permesso di scoprire ed analizzare nel profondo la poetica del suo linguaggio. Ti chiedo quindi se puoi raccontarci la tua visione del suo lavoro.

Lavorare con Guidi mi ha aiutato a capire perché ho sempre amato il suo lavoro. Prima lo amavo e basta, istintivamente. Lo amava il mio occhio (l’occhio che pensa!), prima ancora che la mente, per parlare “alla Guidi”. Mi sono resa conto che ciò che coglievo con gli occhi è quella profondità di pensiero che sostanzia ogni gesto di Guidi, ogni sua parola e visione. È la sua fede della fotografia come linguaggio, come lingua che parla secondo un proprio sistema di segni e che dunque ci parla continuamente, se sappiamo “ascoltarla” con i nostri occhi.

Dietro le quinte della mostra: Simona Antonacci insieme al fotografo Guido Guidi a Ronta di Cesena. Foto: Alessandro Toscano.

Tra le varie opere esposte c’è una che ti ha colpito di più rispetto alle altre? Qual è quella che ti ha maggiormente sorpreso?

C’è un’opera fotografica che amo più delle altre, forse perché è quella che mi ha rivelato come “accedere” al suo lavoro: Passo del muraglione, 1988. La fotografia ritrae una montagna, che occupa quasi tutta la superficie della fotografia, in primo piano un palo e in alto a destra si incrociano due fili elettrici, a creare una sorta di croce. È proprio su questo incrocio di linee che l’occhio scorrendo va a soffermarsi, e su questo Guidi ha detto: “Questo esprime il mio desiderio di essere in cima alla montagna”. Così mi ha spiegato non solo quella fotografia, ma tutto il suo lavoro.

Guido Guidi, Passo del muraglione 1988 ©Guido Guidi.

Il tuo rapporto privilegiato ti ha permesso di scoprire Guido Guidi uomo e Guido Guidi fotografo. Ce ne puoi parlare?

Sono inscindibili. L’atteggiamento reticente, la tendenza a muoversi con “il passo del cavallo”, a non rispondere mai in modo diretto a una domanda, a usare l’allusione piuttosto che la declamazione, ad esprimersi sempre “tra virgolette”, come suggerisco anche nel testo che ho scritto nel catalogo, è l’essenza di un’attitudine propria di un autore in cui l’arte e la vita, necessariamente, coincidono.