Una piazza italiana, restituisce con completezza il processo che ha dato vita al progetto per la piazza del Duomo di Treviso. Un incarico cui Francesco Venezia ha rinunciato nel momento in cui ha capito di non avere un committente. L’occasione mancata è divenuta oggi un libro in quattro tempi in cui l’autore una volta di più dimostra come “impegni di lavoro in apparenza modesti” possano essere occasioni per raccogliere la “sfida a mantenere vive ed operanti le risorse del pensiero, le uniche che in architettura contano veramente, le sole trasmissibili.”

La sezione della piazza del Duomo di Treviso con il nuovo intervento.

La piazza del Duomo di Treviso con il nuovo intervento.

I quattro tempi narrano i momenti cruciali di questa vicenda interrotta. Nel primo una sequenza di schizzi fissa gli obiettivi del progetto, dal modo in cui portare all’interno di un piccolo spazio il Duomo e la città, a come le pietre che delimitano quello spazio trovano la loro esatta collocazione. Nel secondo Michele De Mattio interviene a fissare il progetto nella precisione delle piante e soprattutto delle sezioni che attraversano la piazza. Al tempo del commiato da Treviso – suggerito con delicatezza da alcune cartoline in bianco e nero – segue quello del dialogo in cui Andrea Faraguna incontra Francesco Venezia.

Uno spazio di dimensioni limitate pronto ad accogliere la città.

Una volta perso il suo podio, il Duomo di Treviso ritrova la giusta scala ed entra con prepotenza nella fontana urbana.

“Nello spazio di cinquanta metri quadrati abbiamo lo scavo e la vista parziale, la presenza dell’acqua”: una fontana urbana anima la piazza smisurata e irregolare del Duomo di Treviso. Quell’oggetto di limitate dimensioni contiene percettivamente la piazza e mette in atto la natura stessa della città. Quello che a prima vista sembra una rovina è però un cantiere, un cantiere antico fissato nel momento emozionante e meraviglioso in cui, come nella Fioritura della Grecia di Karl Friedrich Schinkel, alcuni grandi blocchi stanno per essere collocati nella loro posizione definitiva. Elementi smisurati grazie ai quali un intervento di dimensione limitata conquista la scala della piazza. Le Corbusier ammoniva che “Il faut exploiter la plus grande dimension”, qui massi monolitici che solo le masse degli schiavi potevano porre in opera compaiono come per incanto in una città contemporanea. Massi monolitici grazie ai quali costruzione e geometria coincidono.

Un masso sospeso in attesa di trovare la sua collocazione definitiva… o di crollare.

In realtà, il dispositivo che permette al progetto per Treviso di raccontare “il senso della città” e “ne descrive una storia, la storia geologica del luogo innanzitutto: quella delle risorgive” è il progetto del suolo – e il controllo del punto di vista. Il suolo è l’alleato cercato – e trovato – con cui trasformare la città in un paesaggio.

“Nello spazio di cinquanta metri quadrati abbiamo lo scavo e la vista parziale, la presenza dell’acqua”.

“Quando non c’è orografia ce la si costruisce”, “la conquista dello spazio avviene attraverso l’amministrazione degli ostacoli. Diaframmare, inquadrare, escludere in parte”, sono affermazioni che sintetizzano i due modi in cui la cultura occidentale ha affrontato la costruzione del paesaggio: quello del landscaper che modella il suolo e dà forma ad un territorio e quello del paysagiste che ne seleziona una parte e la inquadra attraverso raffinate macchine percettive. In entrambi i casi è però fondamentale il controllo del punto di vista. È immediato il ricordo della piazza marginale di Lauro, del progetto per Battery Park a New York, ma soprattutto del teatro di Salemi. Camminando tra i vicoli della città ancora segnata dal terremoto ci si imbatte in un’acropoli che non sostiene un tempio ma contiene un teatro. La rampa che lo avvolge precipita il visitatore fino alla scena che mette in atto la potenza tellurica delle forze ctonie o lo porta a conquistare l’orizzonte e il paesaggio della valle del Belice. Tornano alla mente anche le xilografie di Sebastiano Serlio, dove si scopre che dietro alle scene tragica, comica o satirica, sta un’unica pianta e un’unica sezione. Quei disegni rivelano la struttura sottesa di ogni scena – di ogni paesaggio – e dimostrano come la sezione controlli il punto di vista.

La quota su cui si imposta il pronao del Duomo è quella che fissa anche la posizione dei grandi massi che costruiscono la fontana.

A Treviso, Francesco Venezia fissa la quota al di sotto della quale costruire la sua magica fontana in quella del podio del pronao del Duomo, trasforma così con parsimonia di mezzi l’intera piazza in un’architettura di scavo che anima la scena urbana. Peccato che quella fontana sia ancora in cerca di un committente.