Umberto Eco nel suo libro Come si fa una tesi di laurea (1977) suggeriva agli studenti di delimitare il campo perché “più si restringe il campo e più si va sul sicuro. Una tesi monografica è preferibile a una tesi panoramica”. Era un suggerimento paterno che, dato da un insegnante di cultura gigantesca come la sua, indicava ai giovani i rischi della banalità / superficialità / confusione, inevitabili quando si affrontano temi troppo estesi e complessi. Un invito all’umiltà e alla consapevolezza del limite da assumere come base, oltre che della conoscenza in sé, del modo di restituirla agli altri, costruendo il racconto con gli strumenti più efficaci per farsi ascoltare e capire.

Foto: ©Mariola Peretti, dalla serie “Sedersi ad Amburgo”, 2017.
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Queste indicazioni mi sembrano perfette anche per raccontare la città, un tema iper complesso, forse il più complesso, perché racchiude tutti gli altri. La città è fatta di elementi fisici e statici, ma anche di elementi mutevoli e cangianti: è l’insieme dell’hardware (le strade, gli edifici, le piazze…) e del software (le regole, gli usi, i sistemi organizzativi…). È la sintesi di aspetti materiali e immateriali, (le percezioni, gli stili di vita, i valori della coabitazione) che cambiano nel tempo.
Così, ogni volta che ti chiedono di parlarne, ti infili in un gioco intricato di scatole cinesi in cui ogni argomento ne apre un altro e un altro ancora… Insomma, i rischi della banalità / superficialità / confusione aumentano all’infinito se, come Eco ammoniva, ti muovi in una prospettiva panoramica dentro la quale ogni punto rischia di annacquarsi.
E allora, forse, il suo consiglio può servirci per intraprendere il percorso contrario, partire da un punto circoscritto, presente nell’esperienza di tutti, facilmente verificabile e di certo contemporaneo, e da quel punto recuperare via via una dimensione panoramica facendo emergere concetti nodali della complessità urbana.

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C’è un oggetto che, modesto e alla portata dell’esperienza quotidiana, racchiude uno scrigno di ragionamenti sul nostro vivere insieme: nella mia esperienza attuale di progettazione degli spazi pubblici ho potuto viverlo in tutta la sua contraddittorietà.
È la PANCHINA.
Esposta alle mutevolezze del clima e delle percezioni, raccoglie dentro sé un’inesauribile quantità di racconti e come uno scrigno può aprirsi regalando storie che parlano della città e del nostro modo di abitarla.
Tutti, ma proprio tutti, hanno qualcosa da dire sulla panchina.

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Con sedie e divani la panchina condivide la FUNZIONE: serve per sedersi e quindi per consentire un’attività irrinunciabile per la nostra specie che, dopo aver conquistato la posizione eretta del bipede, deve necessariamente intervallare la verticalità con posizioni idonee a riposare la schiena, le gambe, l’assetto posturale dei muscoli e delle ossa. La panchina è un fatto ERGONOMICO.
Dentro i TREND DEMOGRAFICI attuali in questa parte del mondo, sedersi diventa sempre più importante: stiamo invecchiando e con noi le nostre schiene e le nostre gambe.

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La panchina è un elemento materiale e statico: in quanto tale è FORMA, DESIGN, PRODUZIONE, certificazioni e regolamenti, prestazioni che resistono all’usura, che non feriscono, che non smagliano le calze di nylon, che non producono schegge, che non incastrano le dita dei bambini…
Con sedie e divani la panchina condivide la sua natura di ARREDO, cioè di elemento aggiunto, per molti versi marginale, intercambiabile, sostituibile e variamente declinabile. È ARREDO URBANO che interpreta la dimensione cangiante e tattica del TRANSITORIO.

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Anche se strettamente imparentata con loro, la panchina si differenzia dalle sedie e dai divani che stazionano nei nostri spazi PRIVATI, perché è un oggetto PUBBLICO, non di qualcuno, ma di tutti.
Non abita le stanze delle nostre case, ma i parchi, le strade, le stazioni, i viali. Non abita le abitudini protette e intime degli SPAZI INTERNI, ma quelle esposte e rischiose degli SPAZI ESTERNI.
Non è un messaggio che appartiene al nostro personale diario, è una PAROLA SOCIALE. Nella panchina l’IO diventa NOI.
Le sedie e i divani del privato accolgono solo le persone che passano attraverso il filtro delle nostre porte, i nostri amici, i nostri ospiti. La panchina invece è un OGGETTO COABITATO SENZA FILTRI che selezionano.

Foto: ©Mariola Peretti, dalla serie “Sedersi ad Amburgo”, 2017.
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Atleti e anziani, mamme e bambini, innamorati e amici, solitari lettori di giornali, badanti ai parchi con i loro anziani, oppure tra di loro, nei momenti di libera uscita. Impiegati che consumano lo snack della pausa pranzo estiva, gitanti stanchi. Per qualcuno è una sosta breve, in attesa di qualcuna altro o per tirare il fiato per un attimo. Per altri è una sosta più lunga, pensionati e umarell che trascorrono il loro tempo fuori dalle loro solitudini alla ricerca degli altri, per vedere la vita che scorre e per farsi vedere. Per qualcuno è un pretesto per fare due chiacchiere, per conoscere qualcun altro. Flâneurs e flâneuses, amiche che guardano i giovanotti che passano, giovanotti che guardano le signorine in transito.

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Aldilà della lettura strettamente ergonomica, SEDERSI NON È UNA SCIENZA ESATTA: ci sono modi diversi che si trasformano nel tempo e cambiano con gli stili di vita.
Sedersi infatti non è solo un BISOGNO, ma è anche un DESIDERIO: compiendo questa azione, si compie una rappresentazione di sé, per sé e per gli altri.
Sedersi sulla panchina nella scena pubblica è un’INTERPRETAZIONE TEATRALE. E vedi i ragazzi a cavalcioni, informali ed elastici, i signori distinti e composti, le signore con le gambe accavallate come si conviene al galateo, gli ubriachi sdraiati, i buskers che rincorrono un’armonia perduta, i writers alla ricerca di pagine da scrivere, i vandali di gesti eclatanti… Sedersi è un’azione che ci racconta le DIFFERENZE e quindi, inevitabilmente, i CONFLITTI possibili.

Foto: ©Mariola Peretti, dalla serie “Sedersi ad Amburgo”, 2017.
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La panchina è un gesto POLITICO: è la declinazione del concetto di DECORO, di quello che è gradito e di quello che è sgradito ai sistemi ideologici. Nei Consigli Comunali si consumano lotte estenuanti sulle panchine e sui loro braccioli… si, no, NON VOGLIAMO I BIVACCHI!
La panchina diventa programma elettorale, impegni per la SICUREZZA e la PULIZIA e se lì si siedono solo loro (ndt gli extra comunitari) alla fine è meglio non mettercela proprio.
La panchina è SELFIE, autorappresentazione… e te la piazzano lì, lungo gli itinerari turistici, objet d’art ingigantito per immortalare i paesaggi e te dentro di loro.
È ROSSA come il sangue delle donne uccise ogni anno in questo paese incivile… Porta messaggi, porta poesie. A volte diventa monumento.
C’è tutto nella panchina e, in questo momento di crisi delle città, se apri lo scrigno ci trovi nel ruolo di protagonista, la difficoltà enorme della coabitazione.

Foto: ©Mariola Peretti, dalla serie “Sedersi ad Amburgo”, 2017.
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P.S. ECCO COME IO HO RISOLTO IL PROBLEMA.
Sempre più spesso porto con me una sedia da campeggio, meno di 20 euro, peso di 1 kg ben distribuito sulle spalle dalla tracolla, braccioli, incavo per borraccia e posacenere: mi siedo dove voglio, quando voglio, al sole o all’ombra, davanti al mare e ai panorami che scelgo io.
Non l’ho trovata, come avrei voluto, color del mare come le Chaises bleues che a partire dagli anni Cinquanta hanno arredato la Promenade des Anglais a Nizza e che, nel modello originario, potevi spostare e collocare liberamente.
Per evitare vandalismi e furti le hanno poi fissate tra di loro e al suolo. Nel novembre del 2020 le hanno smontate per evitare gli assembramenti Covid nello spazio pubblico: ora sono ritornate con le nuove regole delle sedute alternate.
E questa è anche la conclusione provvisoria di questo breve trattato: la panchina è lo specchio dell’(in)civiltà di chi abita.

Foto: ©Mariola Peretti, dalla serie “Sedersi ad Amburgo”, 2017.
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