Il Tar Lombardia ha di recente rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dei commi 1 e 2 dell’articolo 72 della legge regionale n. 12/2005, in tema di realizzazione di attrezzature religiose.
Il Collegio ha valutato di dubbia legittimità tali disposizioni costituzionali nella parte in cui stabiliscono che, in assenza o al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature religiose, non è consentita la realizzazione di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dall’impatto urbanistico generato dall’opera e dalle caratteristiche concrete dell’attrezzatura che si intende inserire nel contesto comunale.
Il percorso argomentativo seguito dal Tar muove dalla constatazione che, nella normativa regionale lombarda, le attrezzature religiose sono qualificate, sic et simpliciter, quali opere di urbanizzazione secondaria (cfr. articoli 71, comma 2 e 72, commi 1 e 2 della l.r. n. 12/2005), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito piano comunale che ne stabilisca la localizzazione e il dimensionamento.

Giovanni Muzio, chiesa e convento di San Giovanni Battista alla Creta, Milano, 1957-58. Foto: ©weArch.

Ciò emerge chiaramente, a parere del Collegio, dalla circostanza che l’articolo 71, al comma 1 elenca tra le “attrezzature religiose di interesse comune” indifferentemente tutti gli immobili aventi una determinata destinazione urbanistica (edifici di culto, abitazioni di ministri di culto e del relativo personale di servizio, immobili funzionali alle attività di formazione religiosa, edifici destinati a sedi di associazioni culturali aventi finalità religiose).
Viceversa, a detta del Tar, la legge regionale avrebbe dovuto riconoscere l’esistenza di due categorie di “attrezzature religiose”:
– attrezzature effettivamente destinate ad assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali;
– opere di limitate dimensioni dirette a garantire ai fedeli di disporre di un luogo idoneo ove praticare il proprio credo, ovvero ad espletare attività culturali con connotazione religiosa.
Nella logica del Giudice remittente, solo le opere appartenenti alla prima categoria, in ragione dell’elevato impatto urbanistico da esse generato, devono essere inserite nel contesto urbano mediante un apposito piano; di contro, la realizzazione, in aree idonee dal punto di vista urbanistico, di sale di preghiera di modeste dimensioni o di sedi di associazioni culturali con connotazione religiosa dovrebbe essere lasciata alla libera iniziativa dei privati.
Sulla scorta di tali considerazioni, il Tar ha valutato le disposizioni in esame in contrasto, innanzitutto, con l’art. 19 della Costituzione, che riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede in qualsiasi forma, individuale o collettiva, poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti () viene ad essere subordinata alla pianificazione comunale e quindi al controllo pubblico”.
Il Giudice remittente, a sostegno delle proprie affermazioni, ha richiamato i princìpi già elaborati dalla Consulta nella sentenza n. 63/2016, emessa proprio con riferimento alla normativa regionale lombarda in materia di attrezzature religiose.
Nell’occasione la Corte Costituzionale, infatti, aveva affermato che “non è () consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione”, dato che “l’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost”.
Ad avviso del Tar Lombardia, i commi 1 e 2 dell’articolo 72 della l.r. n. 12/2005 si porrebbero in contrasto anche con l’articolo 2 della Costituzione, che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo, “stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo”.
Sempre a detta del Tar, le norme in questione finirebbero per violare anche il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione.
Ciò in quanto l’articolo 72, commi 1 e 2 della l.r. n. 12/2005 prescrive per le “attrezzature religiose” un trattamento del tutto ingiustificato e discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica.
Questo vale per esempio con riferimento alle scuole. Vero è che la dotazione minima di queste ultime deve essere prevista nel Piano dei Servizi. Tuttavia ciò non preclude la possibilità di aprire liberamente altre scuole e istituti d’istruzione privati “purché nel rispetto di tutte le previsioni di piano atte ad assicurare il corretto inserimento di tali strutture nel contesto urbanistico”.
In conclusione, secondo il Collegio, le previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 72 della l.r. n. 12/2005 “sono di dubbia legittimità costituzionale, in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di ‘attrezzature religiose’, in funzione delle ‘esigenze locali’ – rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune – a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto”.